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Da "Storie dal Mondo Alternativo"

by Stefananda

 

 

YOGA TU CHE YOGO ANCH'IO

by Stefananda '92/'95

 

 

Invero, il destino è stato strano con me.
Quand’ero adolescente, i miei consimilari erano dediti a una serie di cose, più o meno standard.
I più impegnati vestivano in un determinato modo, emettevano certi slogan, facevano certe cose.
I meno impegnati erano dediti al ballo, al rimorchio e al cazzeggio.
Ma sia che un gruppo vestisse bene e l’altro male, sia che alcuni portassero l’orecchino e gli altri no, erano pur sempre due masse di esseri, una di qua, l’altra di là e a me la folla faceva semplicemente orrore. E la pipì preferivo farla da solo nel mio bagno, anzichè con loro, tutti assieme, sul muretto o sul chiosco del mercato sotto casa.
 Io, che ero uscito fuori proprio male, non mi trovavo bene da nessuna parte e men che mai con me stesso.
Vagavo per ore senza meta, prendendo bus a caso, scendendo a caso e camminando per ore a caso.
Passavo giornate intere chiuso nelle biblioteche o nelle librerie.
Scrivevo e leggevo. Leggevo e scrivevo. Ascoltavo musica melodica.
Sapete, sono un sentimentalone.
Leggere, scrivere, ascoltare musica era più o meno tutto quel che m’interessava. Di tutto il resto non me ne fregava  granchè.
Avevo le mie buone ragioni, potete credermi.
Non condividevo gli interessi dei miei coetanei e i miei erano così “strani” e inusuali che dovevo nasconderli.
Lo yoga, il mio principale interesse, veniva spesso confuso con i succhi di frutta e la magia con il Mago Zurlì, quello dello Zecchino d’oro. Avevo l’orecchio e l’occhio all’erta solo per un certo tipo di cose e, seguendo questa mia istintiva ricerca, giravo conferenze e convegni, nella speranza di ricevere l’illuminazione giusta e trovare così la mia strada.
Fu per caso, per puro caso, a meno che non si voglia scomodare una qualche sorta di predestinazione, come adorano fare gli appassionati dell’alternativo, che capitai in uno dei centri  di “risveglio spirituale” del maestro yogi Mahendra Mahesh.
Nei centri di Mahendra Mahesh si imparava a meditare, a distaccarsi dal mondo e dalle sue rotture di sfere (astrali e non), a congiungersi con il proprio Sè e trovare dentro se stessi la sorgente inesauribile della gioia, della pace e della creatività.
La principale tecnica di introspezione e di meditazione che ci veniva data era fondata sull’antica pratica orientale della ripetizione dei nomi sacri o, come si dice in gergo, dei “mantra”.
La pratica consisteva nel ripetere incessantemente, a lungo, il più possibile, una particolare frase, a noi incomprensibile. Ma io già conoscevo questa sublime tecnica, altro che insegnamenti segreti e riservati agli eletti, come ci raccontavano là. In realtà, erano anni che, inconsapevolmente, ripetevo dei mantra. Ogni volta che mi prendevo una cotta per una lei, passavo giornate intere con l’aria ebete e lo sguardo fisso nel vuoto, ripetendo ininterrottamente il nome della mia metà agognata.
Senza saperlo, spontaneamente, avevo scoperto un’antica pratica yoga.
Che mantrate, ragazzi!!!
Certo, se fosse andata bene almeno un volta, ora forse non starei qui a scriverne.
 Durante le riunioni, ci veniva spiegato che “meditare” è un’attività naturale e spontanea della mente. La mente desiderava sperimentare lo stato di meditazione, che era normale come mangiare e dormire, per cui meditare era semplice semplice.
In realtà, ma questo l’ho capito con gli anni, questa è  una sonora stronzata:  la mente ha tanto desiderio e facilità di meditare quanto voi di farvi una nuotata nel Tevere in Gennaio, tanto per dirvene una.
Nei centri Mahesh venivano assegnati vari mantra da ripetere per entrare nello stato di meditazione, alcuni molto classici e tradizionali, come “OM NAMAH SHIVAYA” o “SRI RAM JAY RAM”, ma il “top dei top”, per gli allievi, era ripetere il nome del guru stesso, che tra tutti i mantra era considerato il più “vivo”, il più potente.
Sicchè, potevate vedere nelle sessioni di meditazione parecchi fedelissimi che ad occhi chiusi e con fare ispirato ripetevano incessantemente, per ore: “MAHENDRA MAHESH..... MAHENDRA MAHESH..... MAHENDRA MAHESH.....”
C’è poco da ridere, bello, sappi che in questo ambiente le cose sono sempre andate così: tu sei là che stai cercando, onestamente, di capirci qualcosa e dunque vuoi imparare, ma per uno che vuole imparare ce ne sono cento che vogliono o credono di insegnare e, quasi sempre - è un classico -il primo che arriva ti dice che per avere tutto, anzi, TUTTO, devi ripetere 3.567 volte al giorno il mantra “OM - MADONNA” che è, in pratica, la formula più antica, più potente e (fino a oggi) mai rivelata a niuno - tranne che a voi, che fate parte di quella rara ed esigua schiera di  popolo eletto.
E, alla fine, voi credete di aver trovato il vostro maestro,  ma in realtà era lui che stava cacciando voi, caro il mio fringuello illuminato dalla conoscenza.
Come dire, a caval Di Donato non si guarda in  bocca (potreste scoprire che ha le carie e inoltre fa pure schifo).
Mahendra Mahesh era un maestro bizzarro, un po’ come tutti i maestri, e su di lui circolavano voci, pettegolezzi e leggende.
Si diceva, per esempio, che egli fosse capace di far piovere o di fare uscire il sole a comando; che bastava che ti guardasse o ti toccasse per farti vedere e provare esperienze inenarrabili; che aveva in bocca una protesi costosissima, omaggio dei suoi fedeli americani, dalla quale non si separava mai; che amasse bere lattine di Coca Cola e s’incazzava superbamente coi suoi assistenti se questa gli veniva, putacaso, a mancare.  E non solo.
Mahendra Mahesh era il terrore sacro delle donne incinte.
Egli sosteneva che era inamissibile che due persone assistessero a una sua lezione pagando per una, per cui tutte le donne in gravidanza pagavano il doppio. In fondo, il futuro pargolo riceveva anch’egli giovamento dalla pratica yoga.
E questo chi poteva smentirlo, Piero Angela?
Bene, una volta tanto vi dirò che, almeno per un motivo,  sono stato fortunato a nascere ometto.
Grazie al potere e all’influsso spirituale di Mahendra nelle sale di meditazione dei suoi centri, in tutto il mondo, accadevano cose incredibili.
Durante le sessioni di meditazione c’era chi gridava, chi abbaiava, chi miagolava, chi gridava “mamma”, chi rideva, chi piangeva, chi si contorceva, chi si rotolava per terra, chi sbatteva la testa al muro.  Era una grande seduta di terapia collettiva.
Queste cose accadevano soprattutto nei “ritiri”, che duravano almeno due giorni ed erano molto costosi, però si veniva spinti a farli perchè a tutti i partecipanti veniva assicurata l’illuminazione.
Forse intendevano dire che la corrente elettrica non sarebbe venuta a  mancare durante il corso.
Di fatto, alla fine del programma quelli che erano matti sembravano diventati “sani” e quelli che erano sani sembravano diventati “matti”.
Mah, potenza della “shakti” del Guru!!!
Qualche anno dopo, dopo un’intensa vita colma di attività spirituali (e materiali) il maestro Mahendra Mahesh spirò, cioè morì.
O meglio, come è d’uso nel linguaggio spiritualisticomagnoesoterico, “lasciò il corpo”.
Ma non lasciò solo il corpo.....
Lasciò anche migliaia di seguaci disseminati per il mondo, qualche milioncino di dollari, svariate proprietà e tante, tante belle ragazze che qualsiasi bravo ragazzetto, generoso e degno di sè, avrebbe volentieri consolato.
Ma loro no, non era possibile, non se ne parlava proprio, volevano solo Mahendra Mahesh e noi non avevamo neppure un suo sosia che potesse compiacerle: Mahendra, che ci fosse o no, era pur sempre Mahendra.
Tutto il resto, noia, come diceva il caro Califfo.
Chissà cos’è che c’aveva nascosto, il sor Mahendra... adesso avrete capito perchè anch’io avrei voluto fare il maestro e, chissà, all’occorrenza mi sarei accontentato pure di qualche bella supplenza.
Sarà forse che Mahendra si nasce, ma non si diventa. E il fatto che io sia ancora vivo, permettetemi di annotarlo, non è una gran bella consolazione.
La vita c’è, certo, ma è il sale che manca.
Era quel sale che a noi mancava che Mahendra aveva, quello era il suo segreto, ma se l’è portato dietro e noi rimane ben poco, hai voglia a ripeterti mantra.
Te ne sei andato via senza spiegarcelo il segreto,  caro Mahendra, e far parlare quelle ragazze è come tentare di sciogliere del granito.
Ci hai lasciato all’improvviso, senza illuminarci, come avevi promesso a suo tempo, come ci promettevi sempre.
Vabbè, dico io, l’illuminazione non  me l’hai data, ma almeno l’arte della coltivazione della patata potevi insegnarmela, tu che eri un esperto, no?
Ti sono stato dietro sei anni, Mahendra Mahesh, sei anni della mia vita ridotto a pane e mantra  e non l’ho fatto mai per nessuna, ma ti rendi conto, come mi sono ridotto?
 Che tu te ne andassi, così all’improvviso, nessuno di noi se lo aspettava: quando qualcuno toccava, sia pur velatamente e alla lontana, il discorso, tu che eri così anziano e vivevi come  se fossi il più giovane di tutti noi, poveri disperati imbranati, ti sfioravi i santissimi e recitavi un mantra di protezione per scaramanzia.
E per fugare i dubbi di ognuno, spiegavi che avevi ancora almeno una dozzina di anni  da vivere e che avresti fatto almeno due volte ancora il giro del mondo e io stavo pensando che, quando saresti tornato in Italia,  avrei dovuto chiudere in  casa mia sorella e non fartela vedere, per precauzione, facendo la parte del maschietto geloso - io che delle fidanzate non sono geloso, ma di mia sorella, sì.
No, nessuno di noi se lo aspettava ed eravamo tutti così rassicurati dalla tua autoprofezia che, a onor del vero, stavolta aveva proprio fatto cilecca.
Successe che era di notte, per cui quando alle due o giù di lì mi chiamarono per dirmelo (avranno finito alle sei del mattino di chiamare tutti i seguaci della nazione), i miei parenti m’avrebbero incenerito per aver avuto il sonno interrotto. C’era scappato il morto, ma non era di casa.
Dopotutto, morivano migliaia di persone ogni giorno, ma nessuno veniva a svegliarci alle due di notte.
Bisogna capirli, i miei parenti.
I responsabili del movimento spirituale in Italia decisero di aggiungersi alla cerimonia che andava preparandosi in tutti i centri e in tutte le comunità del mondo: dedicare un’intera giornata di canti (di mantra, ovviamente) e di preghiere a Mahendra, affinchè il suo ultimo viaggio fosse il più comodo e decoroso possibile.
Ebbi un impulso di amore filiale e di romanticismo,  comprai un mazzo di fiori e lo portai in sede per  offrirlo ai piedi e alla memoria di Mahendra ma,  come varcai la soglia, me  ne spogliarono per rivenderlo a quelli che arrivavano in sede per la cerimonia sprovvisti, a loro volta, di fiori: e così  veniva fatto agli altri, sprovveduti come me, per cui i fiori erano offerti e riciclati due volte, ma i soldi se l’incassava l’organizzazione.
Il solito sistema all’americana e chi aveva fatto i corsi di “leader center” in America dimostrava di aver compreso bene l’essenza della filosofia del movimento maeshiano: e lì sì che mi sentii un povero coglione.
Fecero alcune letture introduttive tratte da alcuni dei libri scritti da Mahendra tra cui uno,
crudissimo, sulla morte. Ed era così caustico e pieno di acredine verso la vita che faceva sentire noi, rimasti vivi, i poveri disgraziati rimasti  a soffrire ancora chissà per quanto.
 Ma era troppo tardi per chiederselo.
Poi cantammo quasi ininterrottamente per otto ore. Mi misero ai tamburi e alle percussioni, ero uno dei pochi intonati e sapevo andare a tempo ma mi sentivo triste, però non potevo permettermelo: dovevo darci dentro, di mani e di voce, e comunque le lacrime allora  non servivano più a nessuno, nè a Mahendra, nè a noi.
Suonavamo e cantavamo e io, di tanto in tanto, davo uno sguardo al grande ritratto di Mahendra e ai mazzi di fiori riciclati ai piedi del quadro.

 

Libera selezione estratta dal volume
“STORIE DAL MONDO ALTERNATIVO”,
di Stefananda – Edizioni ISU

 

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