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Da "Storie dal Mondo Alternativo"

by Stefananda

 

 

LA VITA NON HA UN SENSO (MA LA MORTE NEMMENO)

- Dedicato a S N E H A -

by Stefananda '93/'96

 

"A volte è difficile immaginare che un giorno la fine arrivi. Sappiamo tutti che è inevitabile. Qualcosa che tutti noi dovremo affrontare. Ma questo non rende più facile sondarne i misteri. La cosa migliore è vivere al meglio le nostre vite. Circondarci di persone che amiamo e che ci amano. Se riusciamo in questo, non avremo nulla da temere perché, dovunque andiamo, non saremo mai soli".

Mike Lackey

 

L’anno era il 1983, cominciato da neppure un mese. Era di quei giorni la sensazione euforica che dà l’avvio di ogni anno nuovo: la consapevolezza di essere appena all’inizio, di avere un lungo periodo davanti a te, fa sembrare - di riflesso - quasi di avere una nuova vita di fronte, da affrontare e da percorrere. Poi l’anno scorre in fretta e quando inizia quello dopo hai di nuovo la stessa sensazione, che dura ancor meno, ma è la stessa illusione di tutta la vita. E’ così che ce ne andiamo, scorrendo col tempo e ogni Capodanno dà l’impressione di essere pronti a ripartire. Ma è solo un’impressione.
Camminavamo in tarda serata, alla spicciolata, per non arrivare tardi a quell’appuntamento. La macchina era stata parcheggiata là vicino, è vero, si era in epoca assai prerutelliana, non c’erano problemi di entrata/uscita/parcheggi/ticket, sembrava tutto più facile, almeno quello: c’era un non so che di permissivismo, la città era, per certi versi, ancora molto “anarchica” in quanto a regolamenti. Eravamo in uno dei punti più belli e suggestivi di Roma, nei pressi di Fontana di Trevi e la via da percorrere era via delle Muratte. Era là che, da poco, avevano aperto un nuovo centro dedicato a Bhagwan Sree Rajneesh (allora non ancora “Osho”), era un centro “polivalente”, si faceva di tutto o quasi, nell’ambito delle attività cosiddette “alternative”, e per allora era una rarità. Io e il mio amico andavamo spesso insieme dovunque ci fosse qualcosa da vedere o da imparare, appassionati com’eravamo di ricerca interiore e di conoscenze esoteriche, non potevamo perderci questa novità. Lui era già un appassionato frequentatore, aveva sempre  pronte tutte le informazioni e le novità che c’erano da sapere del settore e conoscere lui significava rimanere sempre e comunque aggiornati.
Anche il locale era molto suggestivo, anche se chiuso e un po’ umido, essendo un locale sotterraneo, ma molto ben messo, con le luci soffuse ovunque e i gestori, una coppia tedesca di “arancioni” come venivano definiti i seguaci di Rajneesh, erano molto amabili e ben intenzionati a far partire il centro, nel centro di Roma. Ce n’era solo uno simile, allora, ed era molto più decentrato, in periferia, in via della Giustiniana. Per spostarsi abitualmente così tanto, bisognava esser dei veri credenti appassionati, degli “arancisti” DOC.
Cosa c’era in programma quella sera? Lì si spaziava molto sulle attività; si andava dalla serata dedicata a una particolare meditazione, a una serata dedicata al tarocco intuitivo, a quella dedicata all’apprendimento del massaggio californiano (il mio amico ne era un appassionato cultore: riferiva che starsene là nudo per tutto il tempo in mezzo ai partecipanti gli dava un senso di libertà, alla Woodstock, ma lui era già più grandicello di me, che non frequentavo mai dei coetanei).
Quella sera, il cartellone così recitava: SERATA DEDICATA AL CANTO DEI MANTRA, condotta dai discepoli, ospiti, del maestro Babaji (all’epoca ancora vivo e vegeto in Himalaya o giù di lì). Io mi ricordo gente stranissima, ma che cantava e suonava bene. La sala, il sotterraneo, era gremito, eravamo proprio in tanti. Sarebbe stato bello avere un giorno una cosa così... Mi dicono che avrei dovuto fare il profeta. Stavamo cantando e battendo le mani per darci il ritmo, quando vedemmo, sull’altro lato della stanza, nel gruppo seduto di fronte a noi, una ragazza sui 15 anni dai capelli rossi naturali, che cantava e danzava dimenandosi a occhi chiusi con tutto il corpo con naturalezza, energia, sensualità e languore insieme. Ho conosciuto tanta gente che si è a lungo affannata per cercare di spiegarmi che cos’è l’energia. L’energia? Quella era energia!
Non avevo mai visto una cosa del genere, così tanta vitalità e sensualità prorompente, e mai più, forse, l’avrei rivista, giungendo ad avere una intensa percezione del lato sensuale della natura, quello puro, quello vero, che a pochi esseri umani si schiude, mentre noi tutti giochiamo con le fantasie di amori e di imprese sessuali impossibili, che trovano posto solo nell’irrealtà delle nostre immaginazioni segrete e inconfessate.
Fu  un ottimo esercizio di concentrazione; avrei voluto sempre concentrarmi così e, ne sono certo, avrei trovato la pratica estremamente più facile, altro che tortuose meditazioni. Fu un ottimo esercizio per tutti: nessuno riusciva più a guardare altrove e, sebbene si consigliasse di mantenere gli occhi chiusi durante il canto, i maschietti avevano tutti le pupille sbarrate. E delle donne anche. Vedete, quanto può l’energia del canto?
Al ritorno, il mio amico ancora scioccato mi disse: “Ma hai visto quella?”. Bhè, perché dove credevi che stessi guardando? “Io la conosco, viene sempre qui, si chiama Sneha, ha appena quindic’anni...” e mi aggiunse alcune altre informazioni. Poi mi chiese se mi sarei mai “fatto” arancione, visto che lui un po’ ci stava pensando, ma egli s’era già cambiato diverse tonache e maestri, non gli diedi più di tanto peso, e in effetti fu un passo che non fece mai. Fece di peggio, ma questa è un’altra storia. Ma risposi, comunque, che io devo essere un po’ Arlecchino, non mi vedrei bene vestendo solo il rosso addosso, o il blu, o l’ocra, o il giallo, ma che non ho niente in contrario a vedere gli altri farlo. Mi sta bene che qualcuno sia giallo, verde, rosso o blu, sì, mi va tutto bene, come mi va bene rimanere multicolore o incolore, se serve, basta che non dia troppo nell’occhio.
Tornai in quel centro solo alcune altre volte, ma non rimase comunque a lungo per sopravvivere: i gestori non ce la facevano a far quadrare i conti, cercarono di resistere alla meglio, ma poi dovettero chiudere.
Di Sneha non seppi più nulla ma per parecchio tempo, così vividamente impressionato da lei, per quel che aveva saputo comunicarmi, come in una sorta di transfert, non riuscii più a togliermela di testa, la rividi solo qualche altra volta, nello stesso luogo, poi cambiai ambiente e non la rincontrai più finché, com’era normale, a poco a poco altri volti, altre sensazioni, altri sentimenti, altri fatti si sovrapposero a quei ricordi e a lei e allora smisi di pensarci. Solo, di tanto in tanto, quando mi capitava di incontrare qualche arancione o di leggerne in merito, ripensavo a Sneha, mi chiedevo dov’era, cosa facesse, che cose le fosse accaduto, con chi poteva stare e condividere se stessa e così via.

 

E una tarda sera di Settembre del 92, rientrando in casa, scorrendo la posta e i giornali, la vidi, sorridente e in prima pagina su “Liberation Times”, il giornale degli arancioni. Ma quel numero era dedicato alla morte, quel giornale parlava di morte.
Pensai che forse m’ero sbagliato, che, no, non era e non poteva essere lei, magari era un’omonimia, seppure improbabile. Poi guardai meglio la foto, ed era in primo piano. Era lei. Rimasi per lunghi minuti con lo sguardo fisso, sbarrato nel vuoto, sentendo come un senso di irreale. Ero io che stavo sognando o era qualcuno che stava sognando me?
Erano passati quasi dieci anni. Dieci anni, da allora, per saperne qualcosa e per rivederla, e quel qualcosa, quell’immagine, messa lì in primo piano, su una foto di un giornale “alternativo” che ne commemorava la morte. Che disgusto, avrebbe magari commentato qualche benpensante, perfino sui giornali alternativi si parla di morte, ma allora che alternativo è?
Già, non è allegro parlare di morte, ma solo Paperino e Topolino non muoiono mai, sopravvivono persino ai loro creatori, che possiamo farci?
Sneha s’era vestita d’arancione a 15 anni, pensando certamente a una vita e una sorte migliori, migliori  di quelle che uno può solitamente aspettarsi, per poi andarsene invece così, a soli 25 anni.
Com’era potuto accadere? Cosa le era successo in quegli anni? Se almeno avessi conosciuto qualcuno del suo giro per sapere, per capire, ma ormai che senso aveva andare a scavare in quel che più non era? A che serviva? Come tutti coloro che chiedono, s’informano o si dispiacciono quando è troppo tardi, anch’io avrei fatto così, mettendo un’altra pezza di ipocrisia sulla sua lapide. No, era meglio ricordarti come allora, felice e sorridente a cantare i tuoi mantra, a danzarli come nessun’altra aveva mai saputo fare, come mai avevo visto e come mai avrei più veduto. L’articolo sintetizzava tutto di lei, alla perfezione: gli autori, loro, Deva Majid e Rajendra, l’avevano conosciuta bene, potevano farlo e commemorarla com’era giusto.
“La morte di Sneha è stata per me la più ingiusta, perché è ingiusto morire a poco più di vent’anni. E’ ingiusto anche che l’esistenza si sia presa gioco di lei, portandole via la vita proprio dopo che Sneha aveva scelto di uscire dalla droga, dopo una disintossicazione radicale. Il suo corpo non ha retto, l’epatite l’ha stroncata. Ma è stata forse la sua bellezza sconvolgente che avevo conosciuto quando ancora adolescente la fonte della sua tragedia. Non è facile in questo mondo gestire tanta bellezza. Non sono ancora capace di accettare, come spero abbia saputo fare lei, che si muoia così. E’ davanti a queste morti di giovani pieni di vita che il mito del dio persona crolla nella polvere. Non può esserci questo dio”.
“Ancora qualche giorno fa, camminavo per Roma, speravo quasi a ogni angolo di strada di poter incontrare Sneha, da due ani non riuscivo a sapere dove trovarla, e proprio il giorno dopo ho avuto la notizia. Sneha ha lasciato il corpo in un ospedale, a venticinque anni.” “.....L’ultimo periodo dl vita di Sneha, il suo uscire dalle droghe pesanti, il suo essere ancora circondata da gente d’ogni tipo, anche da chi sfruttava la sua casa, la sua bellezza, la sua disponibilità, perché lei “riusciva a vedere il buono dappertutto”.
L’articolo proseguiva con parole poetiche, bellissime.
Ma la sensazione di assurdità e di inutilità permaneva. Com’era potuto accadere, perché proprio a lei? Cosa le era accaduto in quegli anni? Avrei dato molto per sapere che ne era stato del suo percorso. Avrei chiesto a chiunque pur senza conoscere nessuno del suo giro.
Chissà, forse il suo senso tragico della vita l’aveva prima sconfitta e poi perduta.
Io la conosco bene quella sensazione, ce l’ho sempre dentro, pronta a stuzzicarmi e la sua fedeltà è autentica e lontana da ogni concezione umana. Allora, se per sventura ti accade questo, inciso come da un bulino misterioso nel tuo codice genetico, per sopravvivere, per non lasciarti andare e non perderti, devi avere in te anche un certo qual senso del comico e del paradosso dell’esistenza, non accontentarti soltanto di quello del tragico e dell’assurdo. In tal modo, puoi forse sentirti smarrito e sopraffatto dal fato, dalla vita o dal destino, ma poi reagisci, ti ribelli e cerchi di fargli un culo così. O te o me, ora e sempre.
E’ così che m’ero salvato io, più d’una volta, se no non starei qui a raccontarvela.
Ma esserne a conoscenza, a chi era servito, oltre me?
Poi pensai che, almeno lei, dovunque fosse allora, aveva perlomeno smesso di lottare e di tribolare. Io ero ancora là, senza sapere nemmeno per quanto ne avevo e per cosa o chi avrei dovuto rimanere.
Ognuno di noi aveva i suoi problemi e le sue difficoltà per tirare avanti la carretta della vita. Questo lo capivo. Ma per la maggior parte della gente, i problemi sono generalmente di ordine materiale. Questioni, se vogliamo, di sopravvivenza sociale. Ma, per me, la questione, o il “problema” era di ordine esistenziale, più che materiale. Era duro battersi quando non volevi e sembrava invece che nient’altro ti venisse richiesto, poiché in tutto e dovunque sembrava esserci del conflitto. Non vuoi lottare, ma devi farlo. Vorresti andartene, ma non sai dove e non puoi farlo. Diventi asettico e indifferente, te ne sbatti di tutto e non ti tocca più niente, nemmeno che il mondo intorno a te stia esplodendo di pazzia. Era dura, ma volevo farcela, dovevo farcela. Anche per Sneha. Eravamo due poveri disgraziati, solo che io ero sopravvissuto e lei no. Avevo incassato bene, tutto qui. E avrei assorbito e incassato ancora meglio, nel tempo, una botta dietro l’altra, cercando di non cadere e comunque di rialzarmi, finché le gambe mi reggevano. Lo spirito, più che le gambe. Nessuno doveva meritarsi la mia caduta. E così, giorno dopo giorno, nel tempo,  m’ero costruito una realtà edificata su un sogno, sul mio, pezzo su pezzo. Una vita fatta d’invenzioni. Cosa non dovevo fare, cosa non dovevo inventarmi, ogni giorno, ogni momento, per non pensare all’assurdo, per coltivare quel sogno e per sopravvivere. Essì che la fantasia non m’era mai mancata, fin dall’infanzia. Ma se non te ne vai, se decidi di rimanere, allora non hai scelta, realizzi che devi farcela non solo per te, ma anche per chi non ce la fa e per chi non resta.
Chi ha ragione, chi decide di andarsene o chi sceglie di rimanere? Chi lo sa, forse siamo vinti entrambi, ma in maniera diversa: è solo questione di punti di vista. Chi è quel “forte”  tanto pieno di sé dal giudicare e disprezzare quelli che si sono arresi prima?
Io non m’ero non-arreso per “forza”, era stato solo per rabbia e per orgoglio. Non è stata una grande forza, e nemmeno una grande liberazione.
Ah, Sneha, una volta stavo male, male davvero, adesso non ho più neanche il tempo per quello. Ho trovato, senza capirlo subito, la mia “terapia” e così mi sono salvato. Sfruttando la disperazione e le mie debolezze sono riuscito ad uscirne quasi per intero.
Sì, proprio le mie debolezze, o quelle che giudicavo tali, erano diventate i miei punti di forza.
Siamo vittime del “mal di vivere”, Sneha. Come venirne via, evitando la morte e l’autoannientamento?
Ci sono esseri che diventano alcolizzati. C’è chi si droga, chi impazzisce, chi finisce barbone, chi diventa ladro, chi assassino, chi deviato, chi suicida.
Poi c’è quello che, va a capire come, riesce a trasformare la sua maledizione in fortunata benedizione e riesce a spostare montagne da solo. Se solo conoscessimo come, se potessimo tutti, se si avesse un antidoto, un pezzo di umanità sarebbe salva anziché sprecata e affranta di disperazione e tu saresti ancora qui. Saresti ancora viva, Sneha.
Avrei dato di tutto per avere un antidoto. Se solo avessi saputo come, se qualcuno mi avesse rivelato come, avrei sradicato alberi, avrei scalato la luna o sarei sceso all’inferno, per rimediare. Ma non potevo fare niente. Non c’era niente che potessi fare.
A qualcuno accadeva, beato lui, che qualche entità o qualche extraterrestre gli rivelasse i grandi misteri dell’universo e le risposte agli esoterici perché dell’esistenza, ma non capitava mai a nessuno - possibile - che gli venisse rivelato come riuscire a vivere decentemente e a non annullarsi per rabbia o per impotenza? Le Grandi Anime, coi loro messaggi ultraterreni, non soccorrono i più deboli, quelli che sono destinati a soccombere? Datemi almeno un cristallo o una pozione per redimere la vita di questi cristi! Datemi una parola magica, un’iniziazione barbiturica o un insegnamento più terrestre e meno “extra”, che a volte ci vuole.
Che me ne faccio dell’oltrevita se non so e non riesco a vivermi bene neppure questa?
Sneha, non facciamo nemmeno in tempo a rendercene conto - e non ci diamo pace - che la notte arriva improvvisa a ghermirci alle spalle e ci trascina via.
Lo vedi, lo hai visto, viviamo solo una manciata di giorni, il numero limitato di perle di una collana nemmeno poi tanto lunga che, via via che il tempo scorre, ci adorna sempre meno e poi ci lascia spogli. Della collana dei giorni, i miei sto cercando di trascorrerli bene, e non sempre mi riesce. Sto cercando di fare qualcosa di meglio piuttosto che perire perché io non voglio morire né arrendermi, almeno non ora.
Riuscirò anch’io a realizzare qualcosa di utile?
Rimasi a fissare a lungo la foto in primo piano, con lo sguardo perso a sfocarne l’immagine. Mi si formò un groppo in gola e gli occhi mi si velarono, schermati da una nebbia di malinconia. Non c’era niente da fare. O forse sì.
Mi alzai e cercai in giro una bottiglia, di quello buono. Dovevo averne almeno una da qualche parte pronta per le grandi occasioni, quelle che da me non venivano mai. E infatti la trovai, la presi e la stappai: ci avevo messo dieci anni per farlo, per fare quello che forse, in un’altra occasione, avrei fatto un giorno o una sera per lei, se solo ne avessi avuto il coraggio. Ma lei mi sembrava così lontana, così irraggiungibile, per me come per mille altri.
Guardai quella foto ancora una volta. Riempii il calice, lo sollevai, poi dissi: “A TE!”.
E continuai, continuai, finché le lacrime si sciolsero nel vino e il vino si confuse con loro. Bevevo perché in quel momento non c’era altro da fare, non c’era altro con cui scaldarsi e quegli attimi sembravano più freddi che mai. Freddi come morte. E neppure so, o ricordo, se in quegli attimi avrò bevuto più lacrime o vino. Cosa me ne poteva importare?
C’era rumore di fuori. Musica. La mia via era così tranquilla e silenziosa, a quell’ora di sera, che si poteva sentire perfino il parlare, figuriamoci un’ autoradio a volume alto. Che canzone era, la conoscevo?
Sì, doveva essere Madonna, credo. Sì, era proprio lei, Madonna, ma non era quella giusta, non era quella adatta al momento. Nemmeno con le madonne il caso ci azzeccava più. Non c’era proprio speranza, nemmeno per quel coglione che continuava a sentirsi la sua Madonna, in un momento come quello.
Il giorno dopo, smosso come da una forza ignota, da un impulso al quale non potei né volli oppormi, vagai in auto per ore ed ore, chilometri e chilometri, con lo sguardo fisso, piccole fessure sperdute sul viale dei ricordi.
Finché, mi fermai davanti a un muro, così, per caso, evitando di andarci contro e notai quella frase gigante, come una nota di speranza, così inverosimile da sembrare quasi offensiva, scritta con lo spray “ DIO E’ VIVO E LOTTA INSIEME A NOI”.
Insieme a voi, forse, ma non insieme a me.
E, per un padreterno che sopravvive, ci sono almeno duecento cristi che muoiono o se la passano male. La Signora, si sa, è sempre in attesa e in agguato da qualche parta e, per una volta almeno nell’esistenza, non c’è bisogno né necessità di fingere o di nascondersi. Quando chiama, chiama.
Forse, da qualche parte, stavano già aspettando anche me - che si attacchino al
cazzo, almeno per ora.
Conoscevo un uomo, il quale per me fu un amico e un insegnante, quasi un secondo padre, che con la moglie per più di vent’anni si erano dedicati allo yoga e alla meditazione.
Avevano un unico figlio che, crescendo in un clima del genere, ci si aspettava che sarebbe stato, un giorno, un concentrato  di atomi di spiritualità, come minimo.
Ma quello crebbe e, già adolescente, iniziò a condurre una vita sregolata, l’esatto opposto dei suoi genitori, diventando persino tossicodipendente. Finché un giorno, poteva capitare a chiunque, ma capitò a lui, morì per un’overdose.
Suo padre, straziato e, constatando che neppure tutte le benedizioni del suo guru erano servite a salvarlo, si chiuse dietro un muro di silenzio. Si dice che, con lo sguardo sfocato nel nulla, ripetesse spesso, anche da solo, “la vita non ha senso”.
E quello era diventato il suo “mantra”, l’ unica  sua dichiarazione che si poteva avere.
Niente più lodi o canti in sanscrito, niente più nomi divini salmodiati , orientali o nostrani.
Se la vita non ha un senso, e forse è pure vero, la morte ne ha ancora di meno. Perlomeno certe morti.
Dopo un po’, passato un certo periodo di tempo, per non torturarmi ulteriormente il cervello, evitando così di vincere le prossime olimpiadi dell’autodistruzione, presi quel giornale e lo portai su, in solaio. Lo misi lì e lo seppellii sotto altri giornali. Ma in realtà, nella mia mente io non l’ho mai seppellita. Non l’ho mai dimenticata. Problemi di cuore, forse, di uno che è dannatamente sentimentale, anche se non lo dà a vedere, tantomeno a se stesso.
Capii poi che avrei dovuto liberarla da dentro di me, avrei dovuto lasciarla andare, insieme a quel senso di malinconia e di tristezza che mi prendeva, quando ripensavo a lei, soprattutto nelle giornate uggiose, malinconiche e di pioggia, che mi predisponevano ai ricordi, alle riflessioni più amare e sconsolate.
Dovevo lasciarla andare.
Sapevo, perciò, che dovevo solo sedermi davanti a un foglio bianco e le parole e le immagini avrebbero cominciato a uscire fuori e a scorrere, come sempre, dall’animo alla penna e dalla penna al foglio.
L’avevo fatto innumerevoli volte ed era proprio questo che forse m’aveva salvato impedendomi di impazzire del tutto, in maniera irrecuperabile. Signore, fa’ che io appartenga, almeno, alle legione dei “pazzi sani” e,  comunque, inoffensivi.
Una stagione è finita e un’altra vita è passata ma tu per me, Sneha, nel mio cuore e nella mia mente sopravviverai, anzi, vivrai ancora, oggi come domani, splendendo e spaziando nei cieli infiniti dell’Universo.
Migliaia di volte mi sono chiesto che senso avessero la vita e l’esistenza. Un senso oggettivo non c’era, l’unica per non sprecarsi via inutilmente era trovarselo e poi crederci. Ho pensato infinite volte all’assurdità e alla fragilità dell’esistenza umana e per migliaia di domande ho escogitato altrettante risposte, ma non è mai stato abbastanza.
No, non è mai stato abbastanza.
Padre nostro che sei nei cieli (sia sempre glorificato il Tuo nome), come va Lassù? Ci senti? Mi vedi? Padre nostro, che stai da qualche parte, quando hai un po’ di tempo, quando ti è possibile e te ne ricordi, scendi giù, passa un attimo da me per favore e, se puoi, spiegami, fa’ che io capisca, almeno questo: come può un raggio di sole durare un attimo, andarsene così a poco più di vent’anni, lasciandoti intorno un freddo così desolato e desolante?
E se lei, ora, come spero, è da qualche altra parte che non sia solo sotto fredda e scura terra, fa’ in modo che le giunga il mio saluto, non il ricordo dell’urlo di disperazione di questo mondo, dove lei ha abitato per un tozzo di tempo, sopraffacendola.

 

 

“Sono passati quasi due anni da quel giorno. L’incubo è finito. O forse no..... forse ho solo imparato a convivere con questo comune e inestinguibile senso di precarietà. Fui sorpreso, un giorno, di ritrovare una sua foto. Credevo di averle bruciate tutte. A furia di guardarle non vedevo più lei... erano diventati specchi che riflettevano la mia immagine. Forse siamo un po’ tutti “altrove”..... Come lei, ora... Forse siamo un po’ tutti “altri” e senza che ce ne rendiamo conto il nostro volto cambia continuamente: non ci riconosciamo più, non ci siamo mai conosciuti. Siamo solo visioni riflesse, che hanno perso in questo labirintico gioco di specchi che è la vita la capacità di ritrovare la propria vera immagine.”

Carlo Ambrosini - “Margherite”.

 

Sono passati alcuni anni da allora. Nessuno mi ha mai dato una spiegazione e la mia domanda è rimasta senza risposta. Io stesso ho rinunciato a darmela. Le cose sono continuate a scorrere, nel bene e nel male. In pochi anni, da queste parti, tanti sono venuti e tanti ancora se ne sono andati, chi bene e chi meno.
Il mondo ha continuato a girare e ad andare avanti e io con lui.

 

“Forse siamo un po’ tutti “altrove”......  Come lei, ora...”

 

.....Dedicato a S n e h a

 

 

Libera selezione estratta dal volume
“STORIE DAL MONDO ALTERNATIVO”,
di Stefananda – Edizioni ISU

 

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